La Biblioteca Complottista

Il complottismo nella penna di grandi scrittrici e scrittori.

Libri

Film


J. Gottschall, L’istinto di narrare (Bollati Boringhieri, 2018)

Il fatto di trovare nella Biblioteca Complottista un testo di teoria della letteratura può stupirci: cosa può avere a che fare un saggio che vuole spiegare le radici biologico-evolutive della narrazione con il tema dei complotti?

La risposta però è semplice, se partiamo dall’osservazione per cui i racconti sono il frutto di quella che Gottschall (e molti altri) chiamano la mente narrativa: un prodotto della nostra storia evolutiva che ci spinge a cercare i motivi, le cause e il significato di ogni singolo accadimento, inserendolo in una storia più ampia in cui tutto ha un senso. L’istinto di narrare è un’acquisizione importante per la nostra specie, perché ci consente di esercitare l’arte del trovare le cause e di comprendere quello che potrebbe accadere sulla base delle spiegazioni che diamo per far luce sul nostro presente.
Quando raccontiamo o leggiamo una storia, non ci limitiamo a elencare una successione di fatti, ma cerchiamo le ragioni che li spiegano e li rendono significativi per noi. Ci soffermiamo sulle cause che hanno condotto all’epilogo della narrazione, cerchiamo i motivi che sono alle base di ogni singola azione e troviamo un significato rilevante nella vicenda narrata. Il caso è nemico del racconto. E anche laddove il caso ha un ruolo (Edipo giunto al bivio avrebbe potuto imboccare una strada diversa, Laio sarebbe potuto passare un attimo prima o un attimo dopo e avrebbe potuto non trattare il figlio con arroganza…) assume la forma del destino – e in quanto tale ci invita a riflettere sulle ragioni profonde e oscure che determinano la vita umana.
E’ per questo che la mente narrativa può facilmente diventare una mente complottista: una mente per cui, come nei racconti polizieschi, ogni evento diventa un indizio, vicende apparentemente diverse sono ricondotte a un disegno unitario nascosto e ogni accidente viene ricondotto a colpevole. Gottschall ci invita a pensare che la mente complottista soffra della sindrome di Sherlock Holmes – il grande investigatore che può risolvere i suoi casi solo perché esclude in linea di principio le coincidenze e i ‘dettagli insignificanti’, riconducendo ogni accadimento a un disegno occulto orchestrato da qualcuno di malvagio.

Ecco allora che il libro di Gottschall si merita a pieno titolo un posto nella Biblioteca Complottista, e per almeno due ragioni.

In primo luogo perché ci mostra che cosa lega l’atteggiamento complottista a una capacità umana importante: la capacità di raccogliere fatti ed eventi nella trama unitaria di un racconto che li rende comprensibili – e quindi anche più gestibili. In secondo luogo perché ci invita a riflettere su quanto diversa sia la vita dai racconti, la realtà da come le narrative complottiste la dipingono.


A. Manzoni, I promessi sposi (Milano 1842, cap. 34)

Renzo arriva a Milano e incontra sulla strada un uomo che gli viene incontro e vorrebbe salutarlo, ma nella città tormentata dalla peste anche il gesto più innocente – un saluto – viene scambiato per una minaccia e Renzo viene creduto un untore.

Il fatto è tutto qui, ma in queste poche righe Manzoni costruisce narrativamente una riflessione acutissima sulla genesi delle false credenze e dei complottismi.

A Milano c’è la peste, e la peste è arrivata all’improvviso, portata dai lanzichenecchi. Se un equilibrio si rompe, bisogna cercare una causa, e la causa deve essere qualcosa di esterno al sistema: la peste giunge da fuori, come Renzo, che è un forestiero.

Le cause poi debbono assomigliare agli effetti: un male terribile che ci colpisce nascostamente e quando meno ce lo aspettiamo deve avere la sua origine nell’azione malvagia di qualcuno che ci si avvicina subdolamente e che si atteggia da persona indifesa e innocente. Di fronte a un simile male bisogna armarsi di ogni cautela, e assumere un atteggiamento sospettoso: Renzo vorrebbe salutare l’uomo che gli si fa incontro (“finalmente un cristiano!”), ma il sospettoso viandante lo tiene lontano con un bastone e lo minaccia. Non ha altra ragione per farlo se non quello che ha visto – o che crede di aver visto: un uomo che, vedendolo, si leva il cappello, nascondendo così le mani alla vista. Se l’ha fatto, avrà avuto qualche ragione – e la ragione per cui un forestiero gli si avvicina nascondendo le mani non può che essere questa: nascondere qualcosa – la polvere o la pomata degli untori.

Manzoni ci racconta così la genesi di una falsa teoria, il suo alimentarsi sulla paura e il suo trovare “prove” là dove non vi è nulla che le giustifichi.

Ma il colpo di genio del Manzoni è nel chiudere il racconto con le parole del viandante che anni dopo ricorda quell’evento. Il dubbio e la paura sono diventai ormai una certezza, sotto la spinta di due nuovi attori.

Il primo è il ricordo: nel ricordo la complessità dei fatti si assottiglia e l’interpretazione che si è data a quello che si è visto resta la sola padrona del campo.

Se poi il racconto si ripete molte volte, diviene parte della nostra storia individuale e la verità finisce con il coincidere con le parole di una narrazione mille volte ripetuta. Una narrazione che aggiunge un ultimo ingrediente alla teoria del complotto: il bisogno di sentirsi parte in vicende importanti e di averle vissute, comprendendole appieno. Così, parlando della peste e della sua causa immaginaria – gli untori – l’uomo sempre di nuovo ripeterà: “Quelli che sostengono ancora che non era vero, non lo vengano a dire a me; perché le cose bisogna averle viste”.


Tucidide, La guerra del Peloponneso (Libro II, 47-54)

Nella Biblioteca Complottista, Tucidide ha un ruolo che potremmo definire antagonista.

Tucidide non lascia spazio a complottismo e narrazioni seducenti. Posto di fronte alla pestilenza che di fatto è all’origine della sconfitta della sua città, non si arrampica in speculazioni su oscure macchinazioni o su punizioni divine che sarebbero all’origine di quel male, ma si limita a dire che ne ignora le cause. La capacità di dire “non lo so” e sospendere il giudizio è tutt’altro che scontata – ed è proprio quella che spesso manca alla mente complottista.

Un antidoto nei confronti del complottismo consiste anche in questo: nell’imparare a tollerare l’insicurezza che deriva dalla mancanza di spiegazioni valide, piuttosto che appagarsi spiegazioni fittizie.


G. Verga, Quelli del colera in Vagabondaggio (Firenze, 1887)

In questa novella Verga narra dell’epidemia di colera del 1837 in Sicilia.

Il protagonista del racconto è la folla e le reazioni della gente di due paesi della Sicilia, San Martino e Miraglia, che vedono nell’epidemia e nel suo diffondersi gli effetti nefasti di un complotto e proprio per questo si convincono di trovare gli esecutori di questo malvagio disegno ora in una compagnia itinerante di teatranti, ora in una famiglia di zingari.

Nel raccontare questi eventi, Verga riflette su molti dei temi discussi dalla mostra Complottismo, fake news e altre trappole mentali, e li affronta come di consueto secondo i canoni della sua poetica. La voce dell’autore non si aggiunge a commentare i fatti e non è presente nella forma di un distanziamento ironico che ci fa comprendere che cosa pensi chi scrive. Al contrario, il narratore apparentemente non c’è; a parlare sono i fatti che tuttavia ci appaiono attraverso gli occhi e le parole dei personaggi che li vivono.

Siamo così costretti come lettori a penetrare nella bolla epistemica in cui sono imprigionati gli abitanti di un piccolo paese della Sicilia in cui imperversa il colera. Le morti si susseguono e con esse il racconto delle mille disattenzioni che le spiegano agli occhi dei compaesani: la presa di tabacco ricevuta dalle mani di uno sconosciuto, l’aver consolato una “certa vecchia” che si fingeva addolorata per la morte dell’asino, l’esserci seduto su un muretto là dove poco prima un vecchio forestiero si era appoggiato e aveva cavato di tasca un fazzoletto, con chissà quale polverina dentro. Le parole e i racconti si legano ai fatti e diventano tanto reali quanto la malattia che cercano di spiegare. La morte di un compaesano, di un parente o di un amico divengono nella loro drammaticità prove inconfutabili della tesi per cui il colera è il frutto di un disegno malvagio che si avvale di mezzi tanto arcani, quanto incomprensibili sono le ragioni di questa morte così diversa da quella che “manda il buon Dio”. Così, il racconto delle polveri sparse e delle macchie di strani unguenti (non importa se nessuno le ha mai davvero viste),si fonde ai fatti e reclama per queste ignote sostanze un posto nel mondo.

Alla bolla epistemica si affianca poi la camera dell’eco perché anche solo tentare di mettere in dubbio la verità di questi racconti significa schierarsi dalla parte del nemico: così capita al Capo Urbano e al farmacista che provano a calmare gli animi e perciò stesso vengono incolpati di far parte del complotto che vuole morta la povera gente.

Di qui, da questo generale accecamento, il finale tragico del racconto che risponde ancora una volta a un ragionamento fallace che è all’origine di molti comportamenti e di molte teorie del complotto: si crede che il dolore sofferto abbia sempre un colpevole e che possa essere placato solo se si ottiene giustizia – qualunque significato si intenda con questa parola. Accade così anche nel racconto di Verga: gli abitanti di San Martino e Miraglia hanno sofferto e ritengono per questo di aver diritto a farsi giustizia, alle spese di chi non appartiene al loro gruppo ed è, per ciò stesso, colpevole. ‘Diversi’ e forestieri sono i teatranti cui gli abitanti di San Martino distruggono il carro e tutti i beni, sicuri di trovare da qualche parte le prove del loro essere untori. Ma ancor più stranieri e diversi sono gli zingari che a Miraglia vengono massacrati, uno dopo l’altro, per la stessa ragione.

Anche il racconto di Verga, come le pagine manzoniane, si chiude con un ricordo. Anni dopo, le mani insanguinate della giovane donna zingara che muore cercando di difendere sé e il bambinetto dalla furia omicida degli abitanti di Miraglia torneranno di tanto in tanto nei sogni dei carnefici. Il ricordo di quell’orrore contribuirà a far sorgere il sospetto che quella “giustizia” non fosse in realtà tale, e che ciò era sembrato legittimo fosse in realtà un crimine. Talvolta le “bolle epistemiche” e le “camere dell’eco” si incrinano proprio così: quando una scena è troppo dirompente per essere contenuta nelle forme dei discorsi entro la quale si è cercato di racchiuderla.


U. Eco, Il Cimitero di Praga (Bompiani, 2010)

Con una storia complicata che si dipana fra Torino, Praga e Parigi negli anni tumultuosi tra la nascita del regno d’Italia, la Comune di Parigi e l’Affare Dreyfus, Eco mette in scena la creazione di un documento infame, i Protocolli dei Savi di Sion, ispiratore delle peggiori persecuzioni antiebraiche del 900 e ancor oggi avidamente letto nei circoli antisemiti.

Nel romanzo di Eco il protagonista, dal nome infausto di Simone Simonini (il culto di San Simonino è anch’esso intriso di antisemitismo), è un falsario malevolo, cinico e avido, nutrito di odio antiebraico dal nonno. Simone ha perso la memoria e cerca di recuperarla scrivendo un diario, il racconto della sua vita in un’Europa in tumulto, in cui lui cavalca gli eventi e commette tradimenti e assassini.

Nel diario racconta che per guadagnare qualcosa per i suoi ultimi anni di vita ha scritto un ultimo falso: il verbale di una riunione notturna nel cimitero di Praga fra i capi delle comunità ebraiche, che pianificano il dominio del mondo attraverso il controllo della finanza e della stampa e così alimentano l’odio di classe. Il falso è I Protocolli dei savi di Sion. Simone Simonini è solo il personaggio di un romanzo, ma gli eventi in cui è coinvolto sono accaduti realmente e Eco descrive da par suo il clima torbido in cui furono scritti I Protocolli e l’odio antiebraico che muoveva il loro vero autore: Sergei Alexsandrovic Nilus, collaboratore della famigerata Ochrana, la polizia segreta zarista.

Nilus aveva scritto tra 1901 e il 1903 il testo. Questo prima fu diffuso in privato e poi pubblicato a puntate in un quotidiano di San Pietroburgo da quel Pavel Krusevan che pochi mesi prima aveva suscitato un terribile pogrom a Kishinev. In seguito la stessa polizia segreta aveva contribuito all’enorme successo dei Protocolli diffondendoli in tutta Europa e negli Stati Uniti. Di questo libro, tradotto in sedici lingue, vennero stampate mezzo milione di copie fra il 1920 e il 1922. Ammirato dal magnate Henry Ford che ne pubblicò delle sezioni sul suo giornale, fu adottato come libro di testo nelle scuole della Germania di Hitler.

Il suo successo non fu minimamente scalfito quando nel 1921 il Times di Londra dimostrò al di là di ogni dubbio che si trattava del plagio di un’opera di satira antinapoleonica di uno scrittore francese, Henry Joly, intitolato Dialogo all’inferno fra Machiavelli e Montesquieu. Gli ebrei non vi erano neppure nominati. Lo stesso Joly a sua volta aveva plagiato opere di Alexandre Dumas padre e di Eugène Sue. I Protocolli dei savi di Sion, un testo complottista animato da un odio feroce, erano un plagio di altre opere di finzione che erano plagi a loro volta. Ma avrebbero fomentato nella realtà inimmaginabili atrocità.


G. Lefebvre, La grande paura del 1789 (Einaudi, 1973)

Nella primavera del 1789, quando a Parigi si preparava la rivoluzione, le campagne francesi sono agitate da un grande fermento. La convocazione degli Stati generali aveva creato una generale esaltazione: nell’immaginazione popolare, il re si schierava contro l’aristocrazia e dava finalmente la parola ai contadini e li invitava a esprimere le proprie lamentele nei cahiers de doleance. La speranza in una Francia libera dai gravami feudali si doveva tuttavia tradurre nel terrore che gli aristocratici potessero fermare la storia e schiacciare nel sangue quel processo di liberazione che sembrava avviato. Tra giugno e luglio la tensione raggiunge il parossismo: manca poco al raccolto e tra le compagne si diffonde la voce che gli aristocratici, con l’aiuto dei briganti e di truppe straniere, stessero per devastare i campi e distruggere i villaggi per far morire di fame il popolo francese. Così, nelle campagne francesi riemergono le leggende dell’immaginario popolare: nelle terre che si affacciano al mare si teme l’arrivo degli Inglesi, nel Sud-Est si immagina che gli invasori siano i Piemontesi, nel Sud-Ovest gli Spagnoli, dappertutto girano voci di briganti armati, al soldo degli aristocratici. Una speranza infondata – il “buon re” che vorrebbe liberare i contadini e che è pronto a schierarsi contro gli aristocratici – alimenta una paura ingiustificata, ma di qui nasce la mobilitazione generale delle campagne che in effetti darà un forte contributo all’insorgere della Rivoluzione e che condurrà nell’agosto del 1789 all’abolizione dei vincoli feudali sui contadini. Nelle parole di Lefebvre la Grande paura fu “una gigantesca notizia falsa” che ebbe tuttavia un significato storico rilevante. In questo bellissimo libro Lefebvre da un lato dà voce al ruolo che nel divenire storico hanno le mentalità collettive, le emozioni condivise, le teorie del complotto, le fake-news, dall’altro vorrebbe mostrarci come anche le notizie e i falsi timori di complotti inesistenti vengano piegati dalla Storia verso l’esito cui tendono le dinamiche sociali ed economiche che guidano e determinano gli eventi. Insomma, il libro di Lefebvre è una delle prime acute ricostruzioni storiche degli esiti cui può condurre il propagarsi incontrollato di notizie false e di complotti inesistenti.


P. Roth, Il complotto contro l’America (Einaudi, 2022)

Cosa sarebbe successo se nel 1940 gli Stati Uniti avessero stretto un patto di non aggressione con la Germania nazista? Il complotto contro l’America è il titolo dell’ucronia narrata da Philip Roth.

Il romanzo si apre con il narratore che ricorda di quando aveva 7 anni, viveva con padre, madre e fratello a Wheetasec, un quartiere ebraico di Newark. Una notizia cambia improvvisamente la vita della placida famiglia e di tutti gli ebrei di Newark: il famoso aviatore Charles Lindbergh, antisemita e filonazista, diventa il presidente degli Stati Uniti. È  il 1940, la Germania nazista domina l’Europa e il nuovo presidente stringe  un patto di non aggressione con Hitler e l’imperatore del Giappone. Per gli ebrei americani inizia un incubo già vissuto da quelli fra loro che erano fuggiti dai pogrom in Russia.

“Eravamo una famiglia felice, nel 1940. I miei genitori erano persone socievoli e ospitali, con amici scelti tra i colleghi d’ufficio di mio padre e tra le donne che insieme a mia madre avevano contribuito a organizzare l’Associazione genitori-insegnanti nella nuova scuola di Chancellor Avenue, dove andavamo mio fratello e io. Erano tutti ebrei. Gli uomini del quartiere o lavoravano in proprio – i padroni del candy store, della drogheria, della gioielleria locale, del negozio di abbigliamento, del negozio di mobili, della stazione di servizio e della rosticceria, o i proprietari di piccole officine lungo il confine Newark-Irvington, o idraulici, elettricisti, imbianchini e fontanieri indipendenti – o erano piazzisti come mio padre, fuori tutti i giorni nelle vie della città e nelle case della gente, a vendere le loro mercanzie, pagati a commissione”.

La svastica non c’è solo in Europa: la vita degli ebrei americani viene sconvolta e Philip, suo fratello e i suoi placidi genitori si chiedono come faranno a salvarsi. La situazione diventa ancora più drammatica quando viene assassinato un giornalista che è uno dei principali oppositori all’alleanza di Lindbergh con Hitler. Poi, improvvisamente, Lindbergh scompare col suo aereo e il vicepresidente Wheeler alimenta ancora di più i miasmi dell’antisemitismo. Le persecuzioni agli ebrei si nutrono di fake news pacifiste: non sono i nazisti a volere la guerra, sono gli ebrei. Ed è degli ebrei la responsabilità di tutti gli orrori che la guerra porta con sé. 

Infine, a seguito di una pressante richiesta della moglie di Lindbergh il parlamento chiede a Wheeler di dimettersi, Franklin Delano Roosevelt è eletto presidente e la storia diventa ciò che effettivamente successe: Pearl Harbour, l’entrata in guerra degli Stati Uniti e la sconfitta del nazifascismo. Il romanzo si conclude con una rivelazione della zia di Philip, moglie del rabbino Bengelsdorf che era stato collaboratore della presidenza Lindbergh. Era stato Hitler a sostenere la campagna presidenziale di Lindbergh e a farlo eleggere per rendere la Casa Bianca un alleato della Germania: aveva rapito suo figlio e l’avrebbe ucciso se Lindbergh e sua moglie non avessero appoggiato i suoi obiettivi malefici. Il sospetto che Lindbergh non appoggiasse davvero i suoi piani nonostante l’antisemitismo che lo animava, aveva poi spinto Hitler a far sparire Lindbergh col suo aereo.

Quanto c’è di vero nella storia che gli racconta la zia? Lo stesso Philip la trova dubbia, ma altre spiegazioni di quello che era davvero successo lo sono ancora di più. Nella splendida storia alternativa di Roth s’intrecciano con sinistro realismo la guerra reale, teorie complottiste purtroppo note e alcuni complotti che sono parte della finzione narrativa.

C. Collodi, Le avventure di Pinocchio: Storia di un burattino (L’Ippocampo, 2020)

Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito, perché ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte e le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l’appunto è di quelle che hanno il naso lungo.

Le avventure di Pinocchio è un classico della letteratura d’infanzia, in cui la bugia è al centro della narrazione. L’iconografia di Pinocchio con il naso allungato è del resto entrata nell’immaginario collettivo, a rappresentare il bugiardo per antonomasia. Le bugie di Pinocchio non hanno le gambe corte, come si legge nel passaggio citato, ossia non durano poco nel tempo, ma si fanno corpo, plasmano la persona, rendendola sempre più dissimile dagli altri, e per questo riconoscibile. Tale tratto è tipico anche dei complottisti, la cui identità di gruppo è plasmata e rafforzata da comportamenti e simboli caratteristici, che li contraddistinguono rispetto agli altri.

Ma l’analogia con le fake news si ferma qui. Non tutte le bugie sono fake news, infatti. In entrambi i casi siamo di fronte a falsità consapevoli, ma le bugie di Pinocchio, le sue menzogne, sono falsità silenziose, che vivono nell’ombra, e sono per natura private, inventate per evitare situazioni personali spiacevoli o scappare da problemi circoscritti mediante piccoli stratagemmi. Evitano quindi in modo sistematico ogni diffusione e pubblicità. Pinocchio teme continuamente di essere scoperto (oltre ad essere perseguitato dai sensi di colpa). Al contrario, le fake news fanno rumore e sono pubbliche per definizione. Il pubblico è infatti la linfa vitale di ogni fake news: più è ampio, più largo è il consenso, e più lunga sarà la vita della fake news. Per questa ragione, le fake news, a differenza delle menzogne di Pinocchio, fanno di tutto per attirare attenzione, farsi notare e distinguersi dalla massa delle notizie da cui siamo tempestati..

A. Camus, Caligola (Bompiani, 2018)

“Caligola: Ho paura, ho paura dell’immensa solitudine dei mostri. (…) Fate entrare i colpevoli. Voglio vederli. Mi occorrono dei colpevoli. E tutti lo sono.

Il Caligola di Camus è una breve opera teatrale, divisa in tre atti, che narra della nota congiura dell’imperatore romano. Segue lo schema della tragedia greca, rivisitato in chiave contemporanea da Camus che, nel secondo dopoguerra, non ripropone una narrazione dei fatti, ma rappresenta, tramite intensi dialoghi e monologhi, tutto il travaglio esistenziale del protagonista. La vicenda di Caligola diviene dunque l’occasione per mettere in scena il dramma della libertà, che si articola nella dialettica tra follia, possesso e potere.

Come si evince dal brano riportato, nel primo atto Camus mostra come il protagonista, nonostante il potere assoluto di cui gode, si ritrovi in ultima analisi disarmato di fronte dalla crudità dei fatti, incapace di trovare una ragione all’altezza del suo dolore e di convivere con la propria solitudine. Da questi bisogni esistenziali sorge allora in Caligola, così come accade nelle teorie complottiste, il bisogno di trovare un colpevole. È questa ricerca di un colpevole a tutti i costi che, negando di fatto la possibilità del “puro caso”, gli consente di sentirsi padrone della situazione (bias dell’intezionalità). L’individuazione del colpevole è al contempo, per Caligola, lo strumento più efficace per mantenere saldo il potere.

A. Bello, I falsificatori (Fazi Editore, 2010)

Gli agenti del CFR costruiscono degli scenari perfettamente plausibili ai quali danno poi corpo alterando le fonti esistenti o creandone di nuove. In altre parole, modificano la realtà.”

Tra narrazione distopica e romanzo d’avventura, questo libro di Antoine Bello (così come il prequel Gli illuminati) incolla il lettore, con la sua prosa semplice e il ritmo incalzante, portandolo in un mondo, che è poi il nostro, in cui verità e falsità continuamente si sovrappongono, divenendo a tratti indistinguibili. Lo fa seguendo la storia di Sliv, giovane laureato islandese, che comincia a lavorare per un’azienda che poco dopo si rivela essere il CFR, ossia il “Consorzio per la Falsificazione della Realtà”. Questa società agisce nell’ombra da lungo tempo e con estrema destrezza per degli scopi ignoti ai suoi stessi membri. I membri del CFR non creano solo notizie false, ma falsificano prove, inventano fonti inesistenti, alludono a concatenazioni plausibili di eventi volte a riscrivere la storia passata, così da rendere credibili fatti e scenari che sono in realtà pure e semplici finzioni.

A. Baricco, The Game (Einaudi, 2018)

Nel Game non ci sono quelli intelligenti che hanno rispetto dei fatti e i cattivi che sono capaci solo di ragionamenti gastrointestinali.

The Game è un libro molto vario, ricco di intuizioni diverse, di cui si possono dire molte cose. È il tentativo di offrire una chiave per comprendere il presente, il modo di fare i conti con un passato scomodo come quello del ’900, un racconto genealogico dell’umanità 2.0 (se così possiamo chiamarla); e ancora, è una mappa della rivoluzione digitale, un saggio divulgativo di gnoseologia, un invito accorato a prendere parte alla partita, e tante altre cose.

Uno degli aspetti di questo mosaico complesso, in cui la realtà è divenuta Game, è quello del rapporto tra noi e le notizie. E’ così che, per esempio, ripercorrendo la parabola complessa del mondo dell’informazione, in uno dei capitoli dell’ultima parte, dal titolo “Stelle comete”, si legge di come la notizia oggi per essere tale, per essere divulgata e accreditata, deve essere semplice e dinamica, veloce e di impatto. La verità, eterna e immutabile, non ha spazio all’interno del nuovo mondo. E i fatti si defilano sempre più, così che la realtà diviene riducibile allo storytelling che se ne fa.

G. Orwell, 1984 (Mondadori, 2016)

Raccontare deliberatamente menzogne e nello stesso tempo crederci davvero, dimenticare ogni atto che nel frattempo sia divenuto sconveniente e poi, una volta che si renda di nuovo necessario, richiamarlo in via dell’oblio per tutto il tempo che serva, negare l’esistenza di una realtà oggettiva e al tempo stesso prendere atto di quella medesima realtà che si nega, tutto ciò è assolutamente necessario.”

Il romanzo distopico 1984 non ha bisogno di presentazioni. Fu scritto nel 1949, a qualche anno dalla fine della seconda guerra mondiale. Come è noto, Orwell intendeva avanzare una critica dello stato totalitarista, descrivendo con grande fantasia e precisione le dinamiche messe in atto dal potere che vige in un regime autoritario. Leggendo l’opera Teoria e pratica del collettivismo oligarchico, i protagonisti del romanzo vengono a conoscenza dei protocolli che ogni ministero segue. I servizi del ministero della verità – il cui compito è quello di falsificare i dati e manipolare la realtà –  fanno leva su molti pregiudizi (bias) e bisogni che guidano classicamente mente complottista.

Il presupposto fondamentale del bipensiero – alla base di tutte le attività del Miniver (come è chiamato il ministero nella neolingua) – è quello per cui è possibile accettare tanto un’affermazione quanto il suo contrario. Questa tolleranza delle contraddizioni è un tratto caratteristico della logica complottista – che fa sì che non di rado gli stessi individui si facciano promotori di teorie del complotto anche tra loro incompatibili (per esempio: “Il virus non esiste” e “Il virus è un’arma biochimica”), pur di screditare le “teorie ufficiali”.

Come si evince dal brano riportato, la manipolazione dei dati fa leva in particolare sul pregiudizio di conferma, nella misura in cui seleziona, modifica, e talora rimuove notizie e dati storici al fine di corroborare e rafforzare le proprie tesi. Adotta poi argomenti basati unicamente sull’assenza di prove contrarie alla tesi da dimostrare (argomenti ad ignorantiam), e sul bisogno di certezza. Servono infatti spiegazioni semplici e sicure affinché ogni cittadino non diventi facile preda dell’angoscia generata dal dubbio e da circostanze problematiche complesse.

L. Valla, La falsa Donazione di Costantino (Rizzoli, 1994)

Chi non vede, dunque, che chi compilò il privilegio visse molto dopo i tempi di Costantino e, volendo abbellire la sua menzogna, dimenticò di aver detto prima che queste cose [la donazione] erano state fatte a Roma tre giorni dopo che colui era stato battezzato? Onde a lui si attaglia bene il vecchio e noto proverbio, che i bugiardi devono avere buona memoria.”

La falsa donazione di Costantino (De falso credita et ementita Constantini donatione) documenta una delle più grande fake news della storia dell’occidente, creata ad hoc in epoca medievale per giustificare il potere temporale del papato.

Tra i primi a dubitare della veridicità della fonte fu il filosofo Niccolò Cusano nel 1433, sulla base del fatto che nessuno nei secoli precedenti all’XI si era mai riferito a questo documento giuridico, con cui l’imperatore Costantino avrebbe consegnato al papa Silvestro I l’impero romano d’Occidente. Fu però Lorenzo Valla, nel 1440, a confutare indubitabilmente che si trattasse di un documento originale. Servendosi di argomenti storici, giuridici e filologici, offrì così un esempio eloquente di quello che oggi chiameremmo debunking.

M. Butter e P. Knight (a cura di), Routledge Handbook of Conspiracy Theories (Routledge, 2020)

Il volume offre un approccio interdisciplinare allo studio del complottismo ed è uno strumento indispensabile per chiunque sia interessato al tema. Le psicologhe/i, filosofe/i, antropologhe/i, sociologhe/i e storiche/i delle idee che contribuiscono al volume analizzano le teorie del complotto affrontando diversi interrogativi riguardanti la loro natura, le loro origini storiche e significato politico, l’architettura mentale che le governa, i modi in cui si diffondono e le conseguenze della loro diffusione.

N.L. Rosenblum e R. Muirhead, A Lot of People Are Saying. The New Conspiracism and the Assault on Democracy (Princeton University Press, 2019)

Le teorie del complotto esistono da tempi lontanissimi; ma Rosemblum e Muirhead sostengono con forti argomenti e dovizia di esempi che oggi è in auge una nuova forma di complottismo, cresciuto in modo virulento a partire dalle elezioni di Donald Trump. In che cosa differisce il nuovo complottismo da quello tradizionale? Perché è così pericoloso per la democrazia? Che cosa possiamo fare per resistere alle sue minacce? Questo libro ci offre strumenti importanti per individuare e comprendere questo fenomeno insidioso.

R. Brotherton, Menti sospettose. Perché siamo tutti complottisti (Bollati Boringhieri, 2017)

Come è possibile che tante persone credano alle teorie del complotto più assurde? In questo libro Rob Botherton presenta in modo accattivante e lucidissimo la psicologia del complottismo, esplorando cioè i meccanismi della “mente complottista”. Ci mostra che la mente complottista è il prodotto dei meccanismi cognitivi che sono implementati nelle menti di noi tutti e sono alla base della formazione delle credenze che comunemente nutriamo. Il libro mostra “quello che la psicologia può svelare sul modo in cui decidiamo cosa sia sensato e cosa sia ridicolo e sul perché le persone credano a cose che ad altri sembrano del tutto impossibili.”

H. Ben-Itto, The Lie That Wouldn’t Die. The Protocols of the Elders of Sion (Vallentine Mitchell, 2005)

Hadassa Ben-Itto, magistrato israeliano per 31 anni e membro della delegazione israeliana presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, racconta la storia de I Protocolli dei Savi di Sion e del processo svoltosi a Berna nel 1934 che ne smascherava la falsità e l’incitazione all’odio. Racconta del coraggio e dell’intelligenza di Georges Brunschwig, il giovane avvocato svizzero che nel processo aveva sostenuto l’accusa contrapponendosi a tedeschi, russi, francesi e svizzeri.

W. Benz, I protocolli dei Savi di Sion. La leggenda del complotto mondiale ebraico (Mimesis, 2009)

I Protocolli dei Savi di Sion fu presumibilmente scritto da Sergei Alexsandrovic Nilus, un collaboratore della famigerata Ochrana, la polizia segreta zarista fra il 1901 e il 1903. Nilus spacciò come documento autentico un testo che descriveva immaginarie riunioni segrete fra esponenti delle comunità ebraiche, organizzate allo scopo di manipolare l’economia mondiale, controllare la stampa e alimentare i conflitti sociali e religiosi. Scopo di chi aveva scritto questo testo era fomentare e giustificare l’odio antisemita. Ma il testo non era soltanto una finzione spacciata come descrizione veridica di fatti realmente avvenuti. Come dimostrò nel 1921 il giornalista del Times di Londra Philipe Graves, i Protocolli erano anche il plagio di una satira politica francese di Maurice French (Dialogue aux enfers entre Machiavel et Montesquieu del 1864) nella quale non vi era neppure menzione degli ebrei. Alla denuncia di Graves seguì nel 1932 un famoso processo a Berna nel quale due gerarchi nazisti furono condannati per aver diffuso in Svizzera questo testo dal contenuto diffamatorio e fraudolento. Nonostante l’articolo di Graves e la condanna del tribunale di Berna, I Protocolli dei Savi di Sion ebbero e continuano ad avere un enorme successo: tradotti in sedici lingue, ancora oggi sono un libro di testo nelle scuole di quei paesi in cui l’odio antiebraico è molto vivo.

Come si può spiegare il successo de I Protocolli? In questo volume Wolfgang Benz studia il modo in cui il testo, rinfocolando la teoria della grande cospirazione ebraica mondiale, contribuisce a diffondere l’immagine del “perfido giudeo”. Dà una spiegazione del meccanismo alla base della creazione e del successo di questa teoria e mette in evidenza  una delle sue assunzioni, secondo cui “la società segreta agisce in qualità di rappresentante della totalità degli ebrei”. “Questo fatto – spiega Benz – stigmatizza ciascun singolo ebreo come facente parte di una pericolosa cospirazione e fa del libello la più temibile arma antisemita”.

Perché le teorie complottiste hanno così tanto credito fra gli antisemiti? Le azioni contro gli ebrei sono sempre state particolarmente odiose e violente e la giustificazione per queste azioni deve essere all’altezza degli assassini di massa nei pogrom. Gli assassini di massa vanno perciò considerati come la giusta punizione per particolari nefandezze compiute dagli ebrei. Ecco allora che gli antisemiti attribuiscono agli ebrei un tipo particolare di perfidia: gli ebrei sono perfidi in gruppo e segretamente, non lo sono mai a cielo aperto. L’azione nascosta di un gruppo per fini malevoli è un complotto. E agli ebrei si attribuiscono complotti ai danni dei non ebrei.

Non tutti gli antisemiti però scatenano o partecipano ai pogrom. E gli altri? Gli altri mascherano il proprio odio attraverso l’indignazione passiva verso gli ebrei. L’indignazione, che è spesso considerata un’emozione nobile, ha un grande potere giustificatorio: fa infatti sentire nel giusto chi la prova. La teoria del grande complotto ebraico torna allora utilissima perché merita indignazione chi ha fatto nascostamente coi suoi amici qualcosa di sleale, abietto e in malafede.  La teoria del complotto ebraico mondiale giustifica così tanto la violenza antiebraica quanto l’indignazione antiebraica che è violenta, ma lo è passivamente.

R. Harris, I diari di Hitler (Mondadori, 2001)

“Mai la vittima di una beffa ha lavorato alla creazione della propria trappola con tanta sollecitudine quanto fece il giornalista Gerd Heidemann.”

Robert Harris racconta la storia di uno dei più grandi disastri editoriali di tutti i tempi: all’inizio degli anni ’80 la rivista tedesca Stern è convinta di aver comprato per quasi 4 milioni di marchi i diari privati di Adolf Hitler. A due settimane dall’annuncio della pubblicazione, tuttavia, scopre che sono dei falsi, e pure maldestri.

I diari di Hitler è inserito nella biblioteca complottista perché spiega come una fake news nasce, viene alimentata, creduta, diffusa e, infine, smentita. Il libro tratta il caso particolare di una fake news dotata di un corpo fisico, fatto di carta e inchiostro, ma descrive accuratamente i meccanismi psicologici che supportano tutti i tipi di fake news. Il falsario, il primo che sparge la “notizia”, non è infatti l’unico responsabile della catastrofe. La fake news legata a questo falso storico sarebbe scomparsa nel giro di poco se non avesse trovato giornalisti ed editori che, accecati dal desiderio di dare “lo scoop del secolo”, con i relativi guadagni stratosferici, fossero stati pronti ad alimentarla, giustificandola perfino con un aneddoto storico.

É. Zola, J’Accuse…! (il Saggiatore, 2022)

“È un crimine avere accusato di destabilizzare la Francia quanti la vogliono generosa, alla testa delle nazioni libere e giuste, mentre loro ordivano, di fronte al mondo intero, un impudente complotto per imporre l’errore. È un crimine ingannare l’opinione pubblica, sobillarla fino al delirio, per metterla al servizio di un’opera di morte. È un crimine avvelenare la mente delle persone semplici e umili, esasperare le reazioni intolleranti, farsi scudo dell’odioso antisemitismo, malattia di cui la grande Francia liberale dei diritti dell’uomo morirà, se qualcuno non riuscirà a guarirla. È un crimine sfruttare il patriottismo per suscitare odio, ed è un crimine, infine, fare delle gerarchie militari il dio moderno, mentre tutta la scienza umana lavora per assicurare al mondo un avvenire di verità e giustizia.”

Il 13 gennaio 1898 Émile Zola pubblica sull’Aurore il suo J’Accuse…!, che cambierà il corso dell’affaire Dreyfus. Zola denuncia il complotto dello Stato maggiore contro il capitano ebreo Dreyfus, ma non è un complottista: pensa che i vertici militari dapprima abbiano semplicemente sbagliato, nell’identificare in Dreyfus il traditore che cercavano, e dopo abbiano agito in modo fraudolento per nascondere l’errore. Dietro le loro azioni egli non scorge tanto trame oscure, quanto pregiudizi, viltà, stupidità e un male che trascende i suoi esecutori: coloro che accusa non sono altro, per lui, che mediocri «incarnazioni della malvagità sociale» che dilaga nella stampa nazionalista e antisemita, satura di odio e di menzogne. Con le sue parole, egli mostra quale ruolo possano svolgere gli intellettuali e l’argomentazione razionale nel difendere l’opinione pubblica e le istituzioni da quest’odio e da queste menzogne.

T. Pynchon, L’incanto del lotto 49 (Einaudi, 2005) 

“Comunque vada, la chiamano paranoia. Loro, la chiamano così. O senza l’aiuto dell’LSD e altri alcaloidi sei inciampata per caso nella ricchezza segreta e la densità nascosta di un sogno; in una rete con cui un numero di americani comunicano realmente tra loro mentre riservano al sistema delle poste governative le bugie, le recite della routine, gli aridi tradimenti della povertà spirituale; magari forse in un’alternativa autentica alla mancanza di sbocchi, all’assenza di sorprese, che tormenta il cervello di tutti gli americani di tua conoscenza, te compresa, tesoro mio. O è il prodotto di un’allucinazione. O contro di te è stato montato un complotto, talmente caro e elaborato, con particolari che vanno fino alla falsificazione di francobolli e di libri antichi, una sorveglianza costante sui tuoi spostamenti, affissione di corni da postiglione per tutta San Francisco, corruzione di bibliotecari, assunzione di attori professionisti e cos’altro ancora, solo Pierce Inverarity lo sapeva, il tutto finanziato con i fondi del patrimonio in una maniera o troppo segreta o troppo complicata per la tua mentalità extra-legalistica, anche se sei la co-esecutrice; una maniera così labirintica che deve superare i limiti dello scherzo. O tutta questa congiura te la immagini, nel qual caso, Oedipa, tu sei pazza da legare”

Che cosa sta vivendo Oedipa Maas, la giovane californiana protagonista del romanzo di Thomas Pynchon L’incanto del lotto 49? Un’avventura dietro le quinte della società, dove innumerevoli americani, eredi di una storia secolare, eludono il controllo del governo e si scambiano messaggi segreti, o uno scherzo ideato a suo danno dal suo amante di un tempo, ma così complesso e stravagante da fare paura? O niente del tutto, le coincidenze sono solo coincidenze, e i pensieri complottisti e di trame segrete sono l’inizio della follia?

L. Sciascia, Il contesto. Una parodia (Bompiani, 1989)

“Ma mentre l’ispettore, tornato alla capitale, si preparava a fare una completa relazione del suo lavoro, proprio nella capitale cadeva il procuratore Perro. E stavolta c’erano dei testimoni […]. Nessuno dei tre era stato spettatore del delitto; ma […] [t]utti e tre avevano visto fuggire due persone. Dalla velocità e leggerezza della loro corsa, si poteva senz’altro dire che erano giovani; dalla capigliatura e dall’abbigliamento […] si poteva anche dire che erano giovani di un certo tipo, di una certa tendenza […]. […] Non ci fu giornale che risparmiò alla polizia velato sarcasmo o aperta irrisione. La domanda che cronisti e commentatori, governativi e d’opposizione, si facevano e facevano sotto forme diverse: come mai, in un paese agitato da gruppuscoli giovanili che predicavano la violenza come mezzo e come fine, la polizia si era votata alla tesi del delinquente solitario, del pazzo vendicatore?”

In un paese che è l’Italia e non è l’Italia, l’ispettore Rogas cerca il colpevole di una serie di delitti. Le vittime sono magistrati e le indagini di Rogas conducono a un uomo che sembra perseguire una sua vendetta privata contro chi lo aveva condannato ingiustamente. Ma al potere servono altri colpevoli: gruppi eversivi, ai quali imputare i delitti per approfittarne politicamente. Che cosa farà Rogas? Di chi potrà fidarsi? Il romanzo di Sciascia non mostra solo il groviglio delle trame politiche e delittuose nell’Italia avviata agli anni di piombo, ma anche la capacità del potere di strumentalizzare la paura dei complotti per imporsi contro la democrazia. Questa «parodia», che mise a disagio non solo i suoi primi lettori, ma anche il suo autore – «ho cominciato a scriverla con divertimento, e l’ho finita che non mi divertivo più» –, oggi può essere letta sullo sfondo del complottismo contemporaneo.

M. Gazzini (a cura di), Vere storie di medioevi falsi: esempi, pretesti, metodologie (Istituto storico italiano per il medio evo, 2023)

“Chi invece non trova (…) fabbrica o modifica, creando qualcosa che prima non c’era. Non si tratta solo di un’operazione materiale compiuta in maniera conscia ma anche del frutto di un errore cognitivo, che porta a creare connessioni significative tra fenomeni che non hanno relazione fra loro, e che frequentemente conduce nel magma cospirazionista e anti-scientifico”

False cronologie che cancellano l’esistenza di interi secoli, videogiochi storici con elementi anacronistici per accattivarsi il pubblico, storie di come la politica sia, dall’epoca medievale ai regimi totalitari, e ancora agli stati democratici dell’età contemporanea, un terreno fertile per la menzogna. Questi e altri casi, per 9 capitoli in totale, sono raccontati e discussi nel libro curato da Marina Gazzini, storica medievista dell’Università degli Studi di Milano.

Il volume racconta di come il tema del falso sia una costante all’interno del Medioevo, non solo per coloro che sono vissuti a quell’epoca, ma anche per noi oggi, dal momento che alcune vecchie teorie mendaci sono così radicate che le nuove, pur avendo smentito le precedenti, ancora faticano a raggiungere il pubblico. Si parla in questo caso di “stereotipo colto” in quanto, a differenza di come sono solitamente le fake news, le teorie sono state elaborate dagli addetti ai lavori e rappresentano un tasto dolente nella comunicazione della storia anche nei nostri tempi.

Un esempio più dilettantistico e esemplificativo ai fini della mostra invece è quello della Nuova cronologia, creata negli anni ‘70 e diffusa su larga scala da due matematici, Fomenko e Nosovskij. Secondo questa teoria, le civiltà più influenti del Vecchio Mondo, come quella egizia, greca, romana, bizantina e carolingia, altro non furono che “regni fantasma” – replica di un solo grande impero eurasico, di cui venivano di volta in volta cambiati i nomi, così che popoli e sovrani potessero proclamarsi fautori di regni grandiosi. Il quadro diventa più chiaro se consideriamo che il principale ispiratore della teoria fu Morozov, uno studioso che teorizzò l’esistenza dei regni fantasma, che il regno eurasico era consideerato considerato l’antenato della Russia moderna e che la riscrittura in più regni era visto come il frutto di un complotto per sottometterla a un mondo occidentale, cattolico e latino-germanico. Il successo di pubblico fu garantito prima dal tentato ristabilimento della centralità russa in un momento di forte instabilità e dal bisogno di un’identità ritrovata che fosse anche antioccidentale e – in tempi più recenti – dall’inserimento della teoria nel florido filone cospirazionista attivo su internet. Tramite questo e gli altri casi, il libro intende spingere i lettori ad adottare nei confronti delle notizie che ricevono uno spirito critico, volto innanzitutto alla comprensione dei fatti.

T. Piazza, M. Croce, Che cosa sono le fake news (Carocci, 2022)

Sulla bocca di tutti, eppure così difficili da definire. Questa “bussola” prova a offrire una definizione, ma non solo. Indaga anche quali sono le precondizioni psicologiche e sociali che rendono le fake news cognitivamente seducenti e capaci di diffondersi con grande velocità. Fa un affondo su chi sono i principali fruitori delle fake news, e mostra anche come la disinformazione ad esse legate possa divenire una minaccia per la democrazia. Da ultimo, gli autori suggeriscono una terapia per arginare la produzione e diffusione di fake news.

G. Maddalena, G. Gili, Chi ha paura della post-verità? (Marietti 1820, 2017)

In che modo si può ancora parlare di fatti e verità nel mondo attuale in cui, tra mass media e social network, il falso e il vero sono il più delle volte difficili da distinguere? Tra concetti filosofici, teorie sociologiche e strategie comunicative, questo saggio è una guida chiara e scorrevole per chi voglia comprendere la scena attuale, senza scadere in facili catastrofismi o moralismi. Gli autori inaugurano così una prospettiva originale, che intende superare sia il rischio di un positivismo 2.0, sia il proliferare di un sentimento di sfiducia radicale nel senso comune.

M. Leone, Colpire nel segno: la semiotica dell’irragionevole (Aracne, 2020)

Come agisce la comunicazione complottista? Qual è il contributo della semiotica nel comprendere fenomeni come il complottismo e la diffusione di fake news? Il libro risponde a questa domanda, analizzando con precisione quali sono le dinamiche e i processi alla base dei discorsi irragionevoli che popolano il mondo della comunicazione digitale: non solo complottisti, ma anche haters, trolls, populisti, censori, qualunquisti ecc.

L’approccio semiotico si propone come metodo alternativo tanto alle scienze esatte quanto agli atteggiamenti ideologici (che condannano o esaltanoquesti fenomeni dilaganti) e, a partire dall’assunto che il linguaggio è un “filtro” inevitabile della realtà, permette di fare ordine nell’apparente caos della comunicazione irragionevole.

A. D’Amico, La memoria del nemico (Il Saggiatore, 2023)

Con La memoria del nemico Arnaldo D’Amico ci consegna il racconto della più grande battaglia mai combattuta dall’umanità: quella che ha portato all’incredibile scoperta della «memoria del nemico », il sistema immunitario, e ai benefici della longevità. 

Che siano miasmi, veleni, microbi o germi, batteri o virus, l’essere umano da sempre si è misurato contro nemici invisibili, più pericolosi di qualsiasi esercito in carne e ossa. La loro inesorabile successione – prima con il nome di peste, e poi di morte blu, malaria o vaiolo – ha scandito il progredire di un’impresa collettiva, tra assurde superstizioni e teorie di matrice religiosa o parascientifica. Tutte credute, mai nessuna verificata. 

D’Amico tesse questo racconto fatto di uomini e viaggi, dibattiti e scontri, tentativi fallimentari e vittoriosi: ci porta sulle navi che per prime hanno solcato gli oceani e sono diventate veicolo e ricettacolo della diffusione di misteriosi morbi; nei laboratori dove sono stati perfezionati i metodi di indagine contro le epidemie, come quello in cui nel 1854 Filippo Pacini vide per la prima volta al microscopio i «vibrioni» del colera; nelle università e negli ospedali dove Spallanzani, Pasteur e Mečnikov hanno rivoluzionato il modo di pensare il corpo umano e la sua caducità. 

La memoria del nemico raccoglie le storie di tutti loro e ne fa un romanzo che ci permette di osservarci nella fragilità del nostro corpo e nella sua ostinata forza.

M. Adinolfi, Hanno tutti ragione? Post-verità, fake news, Big Data e democrazia (Salerno Editrice, 2019)

Viviamo in un’epoca in cui fake-news, complottismo e populismo stanno seriamente minacciando le democrazie, e il libro si interroga sui problemi che una simile constatazione pone alla riflessione filosofica.

Adinolfi individua due questioni di fondo. La prima concerne il concetto di verità e la presenza – nel dibattito filosofico contemporaneo – di un sospetto diffuso: la convinzione che la verità sia un concetto datato e che il presente ne abbia sancito l’estinzione. Sembra, in altri termini, che della verità si possa fare a meno e che la vita nella post-verità si sia liberata dal gravame Si tratta di una convinzione infondata che ha tuttavia conseguenze rilevanti nel dibattito pubblico: quanto più si legittima teoricamente la pretesa di non ancorare ai fatti le proprie affermazioni quanto più ci si convince che le idee e le convinzioni politiche siano soltanto un abito che decidiamo di far nostro e che non chiede di essere vagliato e verificato, tanto più si indeboliscono le categorie con cui si interpreta il reale e tanto più si mortifica il dibattito pubblico, che progressivamente viene spogliato della sua funzione razionale e diviene il palcoscenico su cui affermare la propria personale visione delle cose.

Se, come diceva Eraclito, il mondo a tutti comune è il mondo dei desti, il mondo della post-verità è popolato da sonnambuli, rinchiusi ciascuno nella propria apparente realtà. Certo, sarebbe sbagliato cercare le cause del proliferare della mentalità complottistica nelle tesi filosofiche sulla post-verità, ma il pamphlet di Adinolfi individua nell’accettazione tacita di un atteggiamento relativistico che rinuncia fin da principio a cercare una verità e una giustificazione per le tesi che tuttavia sostiene una delle ragioni che hanno disarmato il pensiero filosofico e che l’hanno reso in parte cieco alle difficoltà del presente.

Il secondo tema su cui Adinolfi ci invita a riflettere ha che fare con l’ottundersi del “senso” della realtà, intesa innanzitutto come il terreno scabro che è irriducibile alle nostre credenze, come resistenza che contrasta con la nostra prassi e che la costringe a misurarsi con i fatti e con la loro natura indipendente. La realtà è il rumore che non riusciamo a espungere dallo sfondo dei nostri discorsi, ma proprio questo fastidio e questo rumore è ciò cui nel presente siamo diventati meno sensibili. La realtà permane in tutta la sua irriducibile indipendenza, ma il nostro senso della realtà si è affievolito: il nostro presente è un presente caratterizzato da una sostanziale “perdita della realtà”. Tra le cause di questa “perdita di realtà” vi è, per Adinolfi, il nostro vivere in un mondo che, grazie ai risultati della tecnica, ha in parte tacitato la nostra consapevolezza della realtà. La pervasività della tecnica ha determinato un miglioramento radicale delle nostre condizioni di vita, ma proprio questo risultato – che non può essere messo in discussione o criticato alla luce di progetti arcaizzanti – ha come sua ricaduta una “purificazione dell’esistente” che ci espone ad un fraintendimento possibile: ci invita tacitamente a credere che la realtà sia tutta contenuta nelle descrizioni che ne diamo e che sia possibile appagarsi nell’universo chiuso delle nostre opinioni e dei nostri discorsi.

M. Goldenberg, Vaccine Hesitancy (University of Pittsburgh Press, 2021)

L’opinione pubblica ha espresso preoccupazione per gli effetti negativi dei vaccini fin dal momento in cui il dottor Edward Jenner ha introdotto il primo vaccino contro il vaiolo nel 1796. La controversia sulle vaccinazioni infantili si è intensificata nel 1998, quando il dottor Andrew Wakefield ha collegato il vaccino MMR all’autismo. Sebbene le scoperte di Wakefield siano state in seguito screditate e ritrattate e le prove mediche e scientifiche suggeriscano che le vaccinazioni di routine hanno ridotto in modo significativo condizioni pericolose per la vita come il morbillo, la pertosse e la poliomielite, il rifiuto del vaccino e le epidemie prevenibili da vaccino sono in aumento.

Questo libro esplora l’esitazione e il rifiuto dei vaccini tra i genitori del Nord industrializzato. Sebbene la letteratura biomedica, di salute pubblica e di divulgazione scientifica si sia concentrata su un pubblico scientificamente ignorante, il vero problema, sostiene Maya J. Goldenberg, non risiede nell’incomprensione, ma nella sfiducia. La fiducia del pubblico nelle istituzioni scientifiche e negli enti governativi è stata scossa da frodi, scandali di ricerca e cattiva condotta. Il libro rivela come gli studi sui vaccini sponsorizzati dall’industria farmaceutica, l’irresistibile retorica del movimento anti-vaccini e la diffusione di conoscenze populiste sui social media abbiano contribuito alla sfiducia del pubblico nei confronti del consenso scientifico. Inoltre, sottolinea come la discriminazione storica e attuale nell’assistenza sanitaria contro le comunità emarginate continui a plasmare la percezione pubblica dell’affidabilità delle istituzioni. Goldenberg, in definitiva, riflette sull’esitazione nei confronti dei vaccini come una crisi di fiducia pubblica piuttosto che come una guerra alla scienza, sostenendo che avere un buon supporto scientifico sull’efficacia e la sicurezza dei vaccini non è sufficiente. In un panorama comunicativo difficile, Vaccine Hesitancy sostiene la necessità di adottare misure per la costruzione della fiducia che si concentrino sulle relazioni, sulla trasparenza e sulla giustizia.

M. R. X. Dentith (a cura di), Taking Conspiracy Theories Seriously (Rowman & Littlefield, 2018)

I collaboratori di questo volume sostengono che, sebbene la superstizione comune che le teorie del complotto siano esempi di cattive credenze (e che il tipo di persone che credono alle teorie del complotto siano tipicamente irrazionali), molte teorie del complotto sono razionali da credere: i membri della Commissione Dewey avevano ragione a dire che i processi di Mosca degli anni Trenta erano una messinscena; Woodward e Bernstein avevano ragione a pensare che Nixon fosse complice della cospirazione per negare qualsiasi illecito nell’irruzione nell’hotel Watergate; e se accettiamo che gli eventi terroristici dell’11 settembre siano stati commessi da Al-Qaeda o che l’amministrazione Bush ne sia responsabile, allora sembra che stiamo approvando una teoria su una cospirazione per commettere un atto di terrorismo sul suolo americano. In quanto tali, non c’è motivo di rifiutare le teorie del complotto sui generis. Questo volume mette in discussione l’idea che le teorie del complotto siano credenze irrazionali, sostenendo che dovremmo trattare seriamente le teorie del complotto e i fenomeni di cospirazione. Presenta nuove prospettive dalla più ampia comunità filosofica, sociologica e psicologica su quello che sta diventando un tema di crescente rilevanza nel nostro tempo.

U. Eco, Costruire il nemico (La nave di Teseo, 2020)

Questo piccolo volume propone il testo una conferenza pronunciata all’Università di Bologna nel 2008, in cui Eco riflette magistralmente, mediante excursus letterari che spaziano dall’Iliade a James Bond, passando per le propagande belliche e i populismi presenti, sul tema attualissimo del bisogno di avere un nemico da attaccare.

U. Eco, Il complotto (La Nave di Teseo, 2017)

Perché le bufale hanno successo? In questo intervento scritto per la Milanesina nel 2015, Eco indaga la psicologia del complotto mostrando, in un percorso che include filosofia, letteratura occultista ed eventi della storia recente e passata, come le spiegazioni più evidenti di fatti preoccupanti spesso non convincono perché in fondo accettarle fa più male che respingerle.

P-A. Taguieff, Complottismo (Il Mulino, 2023)

Quali sono i caratteri di una teoria del complotto? Come l’impatto degli eventi globali drammatici, quali pandemia, guerre e crisi economiche, ha influito sulla diffusione di fake news e teorie del complotto? Quale è la migliore strategia da attuare, di fronte al complottista che sente di incarnare il senso critico, come fosse un eroe controcorrente? Questo volume offre un quadro sintetico e chiaro per chiunque voglia avere una panoramica sulle principali problematiche legate alle teorie del complotto.

R.H. Thaler, C. R. Sustenin, Nudge: la spinta gentile – ed. definitiva (Feltrinelli, 2021)

Questo bestseller propone una delle strategie di contrasto presentate nella mostra, quella del nudging, o della spinta gentile, come suggerisce il titolo. Questo libro, che ha segnato la storia degli ultimi quindici anni, scritto dall’economista Richard Thaler (premio nobel per l’economia) e il giurista Cass Sunstein, appare ora nella sua forma definitiva e ruota intorno all’idea che si possano promuovere delle pratiche di buona cittadinanza sfruttando quei comportamenti irrazionali o tendenze irriflesse proprie di ciascuno di noi, applicandole ai campi più svariati. Dai risparmi alle assicurazioni, dalla donazione degli organi al salvataggio del pianeta, qual è il ruolo che possono avere dei “pungoli” nelle nostre scelte?

 J. Bridle, nuova era oscura (Nero, 2019)

James Bridle è un noto giornalista ed esperto di tecnologia. In questo volume dalla prosa scorrevole il lettore può trovare riproposti alcuni problemi attualissimi legati alla la rete e le tecnologie digitali, ordinati in dieci capitoli che ne aumentano le possibilità di fruizione: 1. Crepa, 2. Computazione, 3. Clima, 4. Calcolo, 5. Complessità, 6. Cognizione, 7. Complicità, 8. Complotto, 9. Concorrenza, 10. Cloud. In relazione a ognuno di questo temi, l’autore argomenta sempre a partire dai singoli casi, con uno taglio quasi giornalistico che non si limita a ricognizione teorica generale, ma permette di ricomprendere molti fenomeni sotto un’altra luce. Un esempio? Le scie chimiche, trattate nel dettaglio nel capitolo 8…

E. Loria, S. Iacone, C. Meini, Complottisti vulnerabili: le ragioni profonde del cospirazionismo (Rosenberg & Sellier, 2023)

Questo volume costituisce uno strumento prezioso per chi voglia ripercorrere e approfondire molte delle problematiche concettuali esposte nella mostra: dalla sfiducia epistemica, ai bias cognitivi, ai bisogni psicologici e sociali alla base delle teorie complottiste, e oltre. Il libro si articola in cinque capitoli, in grado di offrire una panoramica globale sul fenomeno del complottismo grazie alla pluralità di approcci adottata nel testo. Le riflessioni filosofiche si intrecciano infatti alla psicologia cognitiva, clinica e sociale – oltre che alla infant research, includendo nella trattazione anche l’analisi di alcuni casi studio specifici.


FILM

Eroe per Caso (1991) di Stephan Frears

Come dobbiamo immaginarci un eroe? E quale tipo umano ci sembra più adatto a recitare questa parte? Eroe per caso – un film di Stephen Frears del 1992 – risponde in modo acuto e un po’ cinico a queste domande. Tutto inizia con un incidente aereo e con un ladruncolo, Bernie LaPlante, che vede cadere davanti alla sua auto un aereo passeggeri. Senza pensarci troppo, sentite le grida dei sopravvissuti, Bernie entra nell’aereo e salva la vita di molte persone, senza per questo rinunciare a derubarle. Poco dopo questi eventi, Bernie finirà in prigione senza che nessuno sappia del suo gesto coraggioso. Tra le persone che ha salvato c’è una giornalista, Gale Gayley, che si mette subito alla ricerca dell’ignoto eroe che l’ha salvata. Per un insieme di fortuite circostanze si imbatterà in John Bubber, un senzatetto giovane e bello. John ha tutti i requisiti per essere un eroe: è giovane e povero, vive ai margini di una società che appare dominata da valori egoistici e proprio per questo può sembrare la figura capace di redimerla. Diviene così “l’angelo del volo 104”, l’eroe di cui la gente ha bisogno e di cui presto la stampa si impossessa – e poco importa se alla fine la verità emerge: nelle ultime scene del film, Gale è costretta suo malgrado a comprendere che chi l’ha salvata non è l’uomo che la stampa ha trasformato in un eroe, ma un piccolo malvivente, del tutto inadatto a recitare la parte che la società gli chiede di mettere in scena. Gale scopre come stanno le cose, ma la finzione è più forte della verità, e Bernie – l’eroe per caso – resta nell’ombra: di lui non c’è bisogno nel mondo raccontato dai giornali e dalla televisione. La conclusione del film risponde così alla domanda con cui si apre. Gale è stata premiata per un servizio televisivo: l’intervista ad un uomo che pochi istanti dopo si lascerà cadere dall’ultimo piano di un grattacielo “senza che l’immagine televisiva del corpo che cade appaia anche per un solo attimo fuori fuoco”. Stanca di un giornalismo sensazionalistico, Gale cerca una bella storia che commuova e che ci riappacifichi con il nostro lato umano – e si chiede se sia possibile ancora trovarla. La trova di fatto, e poco importa se si tratta di una notizia falsa, costruita ad arte per rispondere ad un bisogno che condivide con il pubblico dei suoi lettori. Il film di Frears ci invita così a riflettere sulla dimensione narrativa e finzionale del mondo raccontato dalla televisione e dai giornali.

La verità inventata – A Thousand Li(n)es (2022) di Michael Bully Herbig

Lars Bogenius: “Nessuno vuole che gli si dica che la realtà è differente da come uno se la aspetta. Nessuno vuole leggere qualcosa di nuovo. La gente vuole cose che già immagina. Non cerca la verità in un testo che sta leggendo. Cerca una conferma. Non compri una rivista per sentirti dire quanto sei inconsapevole, ignorante e stupido. No, compri una rivista che ti mostri il mondo come lo vedi tu, come credi che sia, compri una rivista che ti racconti delle belle storie avvincenti”.

E se anche i giornalisti iniziassero a diffondere fake news?! Il film propone al grande pubblico un fatto venuto alle cronache nel 2018, quando si scoprì che Claas Relotius (Lars Bogenius, nel film), giovane reporter pluripremiato del Der Spiegel, aveva in realtà falsificato diversi reportage.

È la storia dello scandalo giornalistico più importante dell’ultimo decennio, che ha travolto la redazione del Der Spiegel, uno dei più importanti settimanali tedeschi di informazione, il cui motto è “Sagen, was ist” (“dire le cose come stanno”). È il racconto di come le storie ben fatte (la ‘verità emozionale’, come si dice nel film) abbiano spesso la meglio sui fatti, guadagnando una popolarità e diffusione incomparabile con la cruda narrazione di questi ultimi, ma anche di come le prove abbiano in fondo l’ultima parola.

Il film rappresenta infatti un esempio eloquente della forza delle fake news, e dei meccanismi cognitivi e psicologici su cui fanno leva, ma anche la potenza del suo antidoto: l’ostinazione dei fatti, al cuore dell’operazione di de-bunking portata avanti strenuamente da alcuni colleghi.

The Hater (2020) di Jan Komasa

Beata: “Sembra tutto vero. Il potere della suggestione. Ti meriti un premio”.

Nell’era dell’odio social e del ritorno degli estremismi di stampo fascista, questo thriller drammatico è ambientato in Polonia e racconta la storia di un “invisibile”, Tomasz: un giovane abile e spregiudicato, alla disperata ricerca di un riscatto sociale, che diventa un odiatore seriale per una agenzia di comunicazione. La storia personale del protagonista, fragile ma anche spietato, si intreccia così con la storia politica del paese e con le potenzialità della rete, mostrando come è facile che odio social e ideologia, fomentandosi, portino a conseguenze tutt’altro che virtuali.

Quale è il ruolo delle fake news in questo processo? È solo grazie alle potenti campagne di disinformazione, tramite una capillare creazione e diffusione di fake news, incentivata dai meccanismi dei social media (vedi bolle epistemiche ed echo-chambers), che la mente insicura e tortuosa di Tomasz, che nella vita è profondamente solo e ai margini della società, ottiene un ampio seguito online, finendo per macchinare un vero e proprio complotto politico.

Men in Black (1997) di Barry Sonnenfeld

I men in black, agenti speciali anonimi con il completo nero, hanno il compito di gestire il traffico extraterrestre sul pianeta e di impedire agli umani di venirne a conoscenza servendosi di un apposito flash-cancella-memoria. La pellicola comica è compresa nella filmoteca perché mette in scena uno dei temi più classici delle teorie complottiste a carattere ufologico: gli alieni sono fra noi, ma non ce lo dicono.

Il film racconta qual è il ruolo dei cospiratori in una teoria del complotto. Questi ultimi infatti non vedono nulla di malvagio nelle loro azioni: i MIB non stanno certo complottando contro gli umani, anzi lavorano per il loro bene tenendoli nella beata ignoranza. In questo film i complottisti colpiscono nel segno, tanto che anche i MIB, attrezzati con armi e strumentazione futuristica, si documentano sui loro giornali.

Matrix (1999) di Lilly e Lana Wachowski

Questo classico sci-fi ha un posto d’onore nella nostra filmoteca perché poche opere hanno contribuito all’immaginario complottista come questa. Per molti, infatti, la pellicola si è rivelata un’analogia del reale, capace di esprimere magistralmente, in chiave fantascientifica, lo scetticismo verso un mondo che non è affatto come sembra.

Il protagonista – Thomas il programmatore di giorno, ma Neo l’hacker di notte – vive con indifferenza e disillusione finché all’improvviso non compare sul suo computer la scritta: «Neo svegliati… Matrix ti ha in pugno… Segui il Bianconiglio…». Di lì a poco deve compiere la famosa decisione: pillola rossa, per scoprire com’è davvero la realtà, o pillola blu, per rimanere nella beata ignoranza. Neo sceglie la rossa e scopre così che l’umanità è schiava di macchine altamente intelligenti, i corpi umani sono incapsulati per succhiarne l’energia e i sensi percepiscono il falso. Il mondo che abitava è una mera simulazione virtuale per tenere i cervelli attivi, mentre il mondo vero è post-apocalittico, distrutto nella guerra fra umani e macchine ribelli. Neo si rivela l’Eletto, l’unico in grado di decodificare Matrix e di liberare l’umanità.

Con questa scelta, Neo mostra di avere un grande senso di responsabilità e coraggio. Scendere nella Tana del Bianconiglio è angosciante, ma bisogna guardare in faccia la verità, per quanto terribile, nella speranza di poter cambiare qualcosa. Questo è il ruolo che sentono di ricoprire i complottisti ai nostri giorni: impavidi eroi controcorrente che, congiungendo i puntini, invitano al risveglio le masse. In un mondo opaco, dominato da una tecnologia sempre più avanzata che sfuoca il confine fra il reale, il possibile e il manipolato, il complottista invita a dubitare. Mettendo in pratica lo spirito del film, nutre dubbi su tutto ciò che lo circonda, denuncia a gran voce le incongruenze e riscostruisce il senso nascosto degli eventi. Una delle sue ipotesi di fondo è che, nonostante ci sentiamo liberi di agire, le nostre vite siano controllate, le nostre scelte pilotate e i nostri comportamenti indotti coercitivamente.

Essi vivono (1988) di John Carpenter

Essi vivono è un thriller fantascientifico diretto da John Carpenter. Il film segue la storia di un disoccupato di nome Nada, che scopre degli occhiali da sole speciali, in grado di mostrare il mondo come veramente è. Una volta indossati, la realtà è terrificante: gli alieni si mimetizzano perfettamente fra gli uomini; le strade, normalmente tappezzate di messaggi pubblicitari, si rivelano coperte di ingiunzioni a omologarsi, consumare e obbedire. Gli invasori extraterrestri e i collaborazionisti umani occupano ogni posizione di rilievo, dalla politica alla polizia, fino ai media. Il loro intento è di arricchirsi a discapito della salute degli uomini e dell’ambiente. Nada si unisce a un gruppo di resistenza per smascherare il complotto e restituire la libertà all’umanità che sta “dormendo”.

Il film presenta temi ricorrenti in molte teorie del complotto. Vi è, ad esempio, l’ipotesi del sistema di potere occulto in grado di controllare le vicende dell’umanità. O, ancora, l’idea che le élite agiscano al di sopra delle democrazie in modo occulto, spregiudicato e malvagio.